Costruire la rete
Se volete credermi, bene. Ora dirò come è fatta Ottavia, città – ragnatela. C’è un precipizio in mezzo a due montagne scoscese: la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle. Si cammina sulle traversine di legno, attenti a non mettere il piede negli intervalli, o ci si aggrappa alle maglie di canapa. Sotto non c’è niente per centinaia e centinaia di metri: qualche nuvola scorre; s’intravede più in basso il fondo del burrone. Questa è la base della città: una rete che serve da passaggio e da sostegno. […] Sospesa sull’abisso, la vita degli abitanti d’Ottavia è meno incerta che in altre città.
Sanno che più di tanto la rete non regge.
Questo bellissimo brano, tratto da “Le città invisibili” di Italo Calvino, mi è sembrato la migliore introduzione per questo piccolo contributo dedicato agli ecovillaggi italiani. L’immagine suggerita dal grande scrittore è estremamente suggestiva: una società costruita sull’abisso, sostenuta solo da una fragile ragnatela, delicata come una bolla di sapone. Ma proprio da questa debolezza la città attinge la propria forza: consapevoli del pericolo, gli abitanti si sono potuti organizzare, e hanno imparato a convivere con l’abisso. E così la ragnatela diviene metafora della società, dei rapporti umani, dei legami che capaci di costituire una rete di sicurezza. Consci che “più di tanto, questa, non regge”.
In queste poche pagine cercheremo di tratteggiare il fenomeno ecovillaggi, le sue dinamiche, la sua storia. Che cosa sono gli ecovillaggi? La risposta a questa domanda è resa difficile dalla grande varietà e fluidità di questo movimento; volendo proporre una prima definizione, gli ecovillaggi sono comunità che integrano varie attività, non producono danni all’ambiente naturale, si basano sullo sviluppo olistico e spirituale dell’uomo e possono continuare indefinitamente nel tempo. La nostra società si trova in questi anni a affrontare grandi sfide globali: cambio climatico, povertà, guerre; per evitare l’abisso, quello che deve essere valorizzato è la straordinaria ricchezza dei movimenti glocali; un universo caleidoscopico di piccole e grandi sfide quotidiane. Il movimento degli ecovillaggi rappresenta uno dei nodi della rete su cui possiamo edificare la nostra Ottavia.
Una storia lunga due millenni
Da dove deve iniziare la narrazione del nostro movimento? Come tutte le storie, deve partire dall’inizio. Il concetto di “ecovillaggio” è l’ultima concettualizzazione di una lunga storia di visioni utopiche e ritiri comunitari, ambienti di vita che permettano di esaltare il bene della natura umana e la ricerca di conoscenze salvifiche. Ogni epoca storica ha prodotto le sue proprie versioni di Utopia: termine che letteralmente significa “non luogo”, coniato dal Tommaso Moro nel 1518, per descrivere una società ideale ove regna la stabilità, la pace e la giustizia con valori come la semplicità e l’egualitarismo.
Esperienze di questo tipo sono rintracciabili nelle prime comunità monastiche sorte durante il Basso Impero romano quando, per fuggire alla corruzione e al declino, uomini e donne abbandonarono le città cercando conforto sociale e spirituale in territori deserti e fondando i primi monasteri. Molte altre visioni comunitarie e utopiste sono state sperimentate in Europa e in America nei secoli successivi: i Puritani, i Luddisti, i Quaccheri, i Socialisti Utopici. Tentativi che miravano ai più vari obbiettivi religiosi, secolari, cooperativi, politici. Tutti questi gruppi hanno cercato di affrontare eccessi e problemi del loro tempo tentando di distinguersi dalle culture egemoniche e adottando e valori ritenuti qualitativamente superiori.
Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. Volevo vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa, vivere da gagliardo spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita, falciare ampio e raso terra e mettere poi la vita in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici
Fu Henry David Thoreau a scrivere queste righe tra il 1845 e il 1847, durante il soggiorno nelle foreste che descriverà nelle pagine del Walden. Questa “fuga” si basava sul desiderio di vivere in condizioni di povertà materiale, e tentare di trarne una maggior felicità imparando ad apprezzare maggiormente le piccole cose.
I veri progenitori dei movimenti contemporanei sono stati però gli anni Sessanta e Settanta del Novecento: l’epoca della produzione di massa, della delocalizzazione, della crescita del mercato finanziario e del neoliberalismo di Reagan e della Thatcher. Ma anche gli anni in cui si diffusero nuovi valori “post-materialisti”: aspirazione all’autodeterminazione, alla vita naturale e libera. Come spiegato da Paul Heelas (1999), la controcultura ha seguito tre percorsi: quello diretto a modificare la società dominante;quello che rifiuta le regole della società per vivere una vita edonistica; quello orientato a trovare modi di vita che permettessero di sviluppare il sé autentico. La nuova stagione comunitaria dei Beat e degli Hippies si intrecciò fortemente con due grandi movimenti in rapido sviluppo, il movimento femminista e quello ecologista. La presa di coscienza capace di produrre questo ampio movimento era un ampio mainstream di idee “alternative”, capace di intrecciare la ricerca dell’autenticità con temi come l’ecologia, l’ambientalismo, l’agricoltura biologica, il femminismo, le energie rinnovabili, l’integrazione delle culture internazionali.
Qualcosa si stava muovendo anche nel mondo accademico ed istituzionale: nel 1972 venne pubblicato il Rapporto sui Limiti dello Sviluppo, commissionato dal Club di Roma, che per la prima volta dimostrava con metodologia scientifica la necessità di imboccare la strada di uno sviluppo meno dannoso per il pianeta; “sviluppo sostenibile”, ovvero quello sviluppo, riprendendo la definizione del Rapporto Brundtland (1987), capace di soddisfare i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri. Qualche anno dopo Nicholas Georgescu-Roegen apriva il filone di studi sulla decrescita, accusando le teorie economiche neoclassiche dominanti di non tener conto dei principi della termodinamica e dei limiti fisici del pianeta; a partire da questi studi, la critica al paradigma della crescita illimitata è stato capace di sviluppare sempre più forti basi teoriche.
Nascita e sviluppo degli ecovillaggi
Nella primavera del 1983 Robert Gilman pubblicò negli Stati Uniti il primo numero della rivista Context, per oltre tredici anni megafono del movimento per la sostenibilità: fu proprio Gilman, qualche anno dopo, a introdurre per la prima volta il termine “eco-village”:
human-scale full-featured settlement in which human activities are harmlessly integrated into the natural world in a way that is supportive of healthy human development, and can be successfully continued into the indefinite future.
Comunità a scala ridotta capace di applicare nella pratica i principi della sostenibilità: questo dovevano essere gli ecovillaggi. In pochi anni si diffusero in tutto il mondo iniziative ispirate a questi principi. Nel 1990 Ross e Hildur Jackson crearono in Danimarca una associazione, Gaia Trust, con l’obbiettivo di portare il tema della sostenibilità all’attenzione del grande pubblico, sostenendo che more than anything else, the world needed good examples of what it means to live in harmony with nature in a sustainable and spiritually-satisfying way in a technologically advanced society.
Fu così che Gaia Trust e il Context Institute elaborarono insieme una rapporto pubblicato nel maggio 1991, “Eco-villages and sustainable communities”, che teorizzava le caratteristiche di una comunità sostenibile ideale. Pochi anni dopo in Danimarca veniva formalmente istituto il Global Ecovillage Network, un ufficio centrale capace di coordinare le attività dei primi nuclei che si andavano sviluppando in otto paesi: Scozia, USA, Germania, Australia, Russia, Ungheria, India, e Danimarca.
A Findhorn ebbe luogo la prima Conferenza Mondiale sugli ecovillaggi: qui venne ribadita la necessità di sperimentare nuovi modelli economici sociali, ma senza isolarsi dal resto del mondo, bensì interagendo e integrandosi con il territorio circostante. Obbiettivo non era solo diminuire l’impatto dell’uomo sull’ambiente, ma anche costituire strutture capaci stimolare l’animo umano, grazie alla convivialità, alla cooperazione e alla creatività. Per concludere, la conferenza sottolineò l’importanza di includere in questo programma sempre più paesi, e specialmente i paesi del sud, cercando di costituire un movimento globale capace di rispondere a problemi globali, superando la dicotomia tra paesi primo e terzo mondo.
Nel nostro paese il movimento ecovillaggi ha iniziato gradualmente a diffondersi a partire dagli anni Novanta. Nel 1996 è nata la Rete Italiana dei Villaggi Ecologici (RIVE), affiliata all’Ecovillage European Network e alla Comunità di Findhorn. Nel Manifesto RIVE, tuttora in elaborazione, si legge:
Vogliamo costruire un mondo nel quale armonia, fiducia, e pacifiche relazioni tra gli uomini e rispetto per ogni essere vivente porti ciascuno ad acquisire coscienza di sé, conducendo un’esistenza ecosostenibile. Un mondo di comunità e di individui che si prendono cura l’uno dell’altro, che condividono le loro esistenze, certi che solo abbracciando varie culture, armonizzando i loro comportamenti con la natura possono porre le basi di un mondo diverso, per assumere un nuovo atteggiamento di fronte alla vita, al lavoro, alle relazioni, fondato sul vivere comunitario e solidale.
Al Global Ecovillage Network aderiscono oggi circa 13.000 ecovillaggi. L’americana Fellowship for International Communities stima l’esistenza di 25000 progetti comunitari in tutto il mondo. Nel nostro paese nel 2011 gli ecovillaggi riconosciuti dalla RIVE erano 23, punta di diamante di un movimento di “ritorno alla terra” molto più diffuso che conta una cinquantina di insediamenti; la RIVE infatti riconosce come ecovillaggi comunità costituite da almeno cinque persone adulte, capaci di perdurare ne tempo, che condividono i valori del Manifesto. Ogni insediamento deve essere “ecologico”, ovvero costituito da edifici ecosistenibili, a basso impatto ambientale, spesso dotati di pannelli solari come fonte di energia. A volte sono costruzioni recenti, ma più spesso vengono recuperate e ristrutturate antiche case coloniche e poderi, sopratutto in regioni come la Toscana dove sono ancora diffuse le case mezzadrili abbandonate; un recupero del territorio parte del “rinascimento delle campagne” di cui parlano sociologi come Barberis (2011). A volte gli ecovilleggianti lavorano nell’insediamento, in attività agricole o artigianali, altre volte mantengono il proprio lavoro precendete; secondo una prospettiva comunitaria, spesso le famiglie condividono i loro redditi e si aiutano a vicenda, per esempio nella sorveglianza e nell’educazione dei bambini.
Se inizialmente i partecipanti erano poche decine di persone, provenienti dalle esperienze degli anni Settanta, ad essi si sono aggiunti molti giovani attirati da un diverso modello di vita, andando a costituire un universo eterogeneo e variegato, ma dinamico e ricco di stimoli.
Ecovillaggi, sfide glocali
Molte definizioni sono state coniate per gli ecovillagi. Per esempio a group of people who strive to live a sustainable, satisfying lifestyle in harmony with each other, all other living beings and the Earth; oppure la già citata presentazione di Gilman, insediamenti a scala umana completi di tutte le funzionalità in cui le attività umane sono integrate con il mondo naturale in un modo che favorisca un sano sviluppo umano e che possa essere proseguito con successo nel futuro.
Definizioni complesse, ma che svelano un principio molto semplice: come molti altri movimenti comunitari prima di loro, gli ecovillaggi sono la risposta di alcuni individui a determinate problematiche della nostra società. Nonostante l’estrema eterogeneità del fenomeno, si possono individuare alcuni elementi fondamentali comuni per tutti gli ecovillaggi: l’ambientalismo e la sostenibilità, legati al ritorno alla terra, la permacultura e la rigenerazione della terra, l’agricoltura biologica e cibi locali; la convivialità e il comunitarismo, legate alla solidarità locale e internazionale, a nuove strutture di convivenza e alla sperimentazione di nuove forme di accoglienza come il “wwoofing”; l’apertura verso la multiculturalità, che favorisce una visione olistica dello sviluppo dell’intera persona e l’interesse verso tematiche spirituali e gnostiche come lo spiritualismo e le discipline orientali oppure verso ideologie laiche come la decrescita felice. Un esempio è il successo che sta incontrando la pratica del “reiki”, tecnica spirituale di origine giapponese usata come strumento terapeutico alternativo.
“Bene comune” vuol dire coltivare una visione lungimirante, vuol dire investire sul futuro, vuol dire preoccuparsi della comunità dei cittadini, vuol dire anteporre l’interesse a lungo termine di tutti all’immediato profitto dei pochi, vuol dire prestare prioritaria attenzione ai giovani, alla loro formazionee e alla loro necessità. Vuol dire anteporre l’eredità che dobbiamo consegnare alle generazioni future all’istinto primordiale di divorare tutto e subito.
Parafrasando la definizione di Settis (2012), gli ecovillaggi sono un “bene comune”? Entrambi questi concetti partono dallo stesso assunto fondamentale: il principio secondo cui chi vive in questo pianeta ha delle responsabilità di fronte a chi vivrà in futuro, ai suoi figli, ai suoi nipoti. Pianeta come bene comune, appunto. In questo senso, gli ecovillaggi fanno parte dell’ampio fronte mondiale anti-globalizzazione; ma mantre la parte più visibile del movimento no-global si esprime attraverso strumenti come le proteste e il boicottaggio, gli ecovilleggianti seguono un approccio diverso. Lentamente stanno costruendo piccole, sostenibili comunità con le loro risorse limitate e l’impegno quotidiano: luoghi dove chiunque possa vivere, mettendo in pratica il famoso slogan di Rene Dobos “thinking globally, acting locally”. Inizialmente ho richiamato il termine “utopia”; eppure sono anche fortemente “realisti”, in quanto rendono concreta la loro critica, impegnandosi personalmente nella risoluzione dei problemi. La sfiducia nell’attuale modello di sviluppo gli ha fatto semplicemente prendere la strada della campagna, della sfida personale. Una costellazione di “laboratori sperimentali” locali in cui si investigano nuove dialettiche tra società-ambiente e economia-ambiente, attraverso sperimentazioni di pratiche innovative o tradizionali, come ad esempio la permacultura e l’orto sinergico: il tentativo di creare una cultura permanente, senza bisogno di fertilizzanti o rotazioni, attraverso una profonda conoscenza del territorio e del suo ciclo riproduttivo.
Il movimento globale degli ecovillaggi si trova ora ad un bivio importante. Si tratta di una visione utopistica, forse, ma allo stesso tempo realizzabile; ora è possibile provare empiricamente un modello alternativo e durevole, e costituire non solo una fuga dal mondo, ma un esempio per il mondo. Però gli ecovillaggi possono funzionare come vettore di cambiamento solo mantenendo un ruolo propositivo, aprendosi ai visitatori, organizzando corsi e lezioni, vendendo i propri prodotti biologici, mantenendo ben salde le proprie radici nel tessuto sociale. Come dichiarato da Camusso, ogni ecovillaggio gestisce attività di tipo economico che servono per far sopravvivere la comunità stessa: dall’agricoltura all’artigianato, dall’accoglienza turistica alla ristorazione. Solo in questo modo si garantisce la tutela dell’autonomia interna e una critica attiva, non meramente speculativa, della società moderna.
Nonostante il suo impegno, però, il movimento degli ecovillaggi è rimasto fino ad ora circoscritto e fuori dal dibattito pubblico della nostra società, che mostra poca inclinazione ad affrontare in modo serio le sfide della sostenibilità. Da qua il valore del viaggio fotografico con cui Vittorio ci accompagna alla scoperta delle attività quotidiane di questo mondo, partendo proprio dagli ecovillaggi a lui più vicini: “pensa globale, agisci locale”.
Nicola Gabellieri